Oltre ai filologi che, per professione, analizzano i nomi con la lente d’ingrandimento della storia della lingua, sono spesso i bambini o i poeti che riescono a scorgere nelle parole cose inaspettate, grazie a uno sguardo obliquo, curioso, che sembra rifiutarsi di accettarle nella loro asettica convenzionalità, irrigidite come sono spesso dagli automatismi della comunicazione. Così è possibile scorgere omofonie o paronomasie che fanno improvvisamente deragliare il senso, come nella poesia di Rodari, oppure vedere dentro una forma idiomatica o in una metafora d’uso la possibilità, con una variazione minima, di creare sovrapposizioni di piani semantici sorprendenti. È noto come certi termini o espressioni, utilizzati dapprima come traslati, si siano nel tempo standardizzati, trasformandosi in cliché. I poeti e i bambini giocano spesso con queste stratificazioni di senso delle parole o delle espressioni idiomatiche, togliendole, con arguzia, dal loro torpore dell’uso automatico, deformandole leggermente oppure decontestualizzandole e riattribuendo in questo modo un diverso imprevisto significato.