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Per noi traduttori calco, di solito, è una parolaccia. Cerchiamo di evitare i calchi, ci vergogniamo quando il revisore ce li scova e ce li corregge, li consideriamo il distintivo del cattivo traduttore e della sciatteria linguistica in genere. Inutile dire che non tutti i calchi sono il male e che il calco – come il prestito, come alcuni errori invalsi nell’uso – è un elemento fondamentale nell’evoluzione di una lingua. Ma secondo quale criterio una lingua accetta alcuni calchi e ne stigmatizza altri?
Con il patrocinio gratuito di AITI, ANITI, ASSOINTERPRETI, TRADINFO e STRADE Sabato 31 gennaio 2015 Ore 10.00-18.00 Hotel Rivoli, Via della Scala n. 33 FIRENZE
Chiusura iscrizioni: 23 gennaio 2015 - Tariffa ridotta fino al 30 dicembre
Info a stl.formazione@gmail.com oppure al 347 3972992
Un’inchiesta seria sul tema è un lavorone che non tutti i giornalisti sarebbero in grado di affrontare. Ci vogliono solide basi in campo sociologico ed economico per evitare di cadere nella banalità, o in qualunquismi e generiche accuse da una parte e dall’altra della barricata.
Per noi traduttori calco, di solito, è una parolaccia. Cerchiamo di evitare i calchi, ci vergogniamo quando il revisore ce li scova e ce li corregge, li consideriamo il distintivo del cattivo traduttore e della sciatteria linguistica in genere. Inutile dire che non tutti i calchi sono il male e che il calco – come il prestito, come alcuni errori invalsi nell’uso – è un elemento fondamentale nell’evoluzione di una lingua
citazioni da Errori necessari di Caleb Crain, edito da 66th and 2nd, 2014
Il romanzo che mescola football americano e guerra atomica uscì negli Stati Uniti nel 1972, ma solo oggi arriva in Italia grazia a Einaudi. Nelle scene di allenamento, nelle geometrie belliche della corsa di un giocatore quanto nella traiettoria di un missile balistico intercontinentale, la lingua dello scrittore diventa strumento di ambizione assoluta. (Traduzione di Federica Aceto)
Per il momento, sopratutto noi che traduciamo dall’inglese, se vogliamo continuare a lavorare, dobbiamo mettere in conto che tradurremo ancora una valanga di libri sciatti, insulsi, scritti malie e curati da editor incapaci. Una sola domanda, però: ma perché, soprattutto se già si sa che non avranno vendite soddisfacenti. Perché?
"Abituati come siamo al doppiaggio, spesso riteniamo che sia giusto che anche un autore di narrativa sia caratterizzato in italiano dalla voce di un solo traduttore. All’inizio della mia carriera di traduttrice la pensavo anch’io così. Ora, non più e in questo breve articolo cercherò di spiegare il perché."
(di Federica Aceto) "Un notevole aiuto alle case editrici che intendono pubblicare libri che rischierebbero di essere in perdita – perché di autori o culture poco conosciuti, o perché rivolti a un pubblico più esigente e selezionato – è dato dagli enti stranieri che erogano finanziamenti a sostegno delle traduzioni di opere letterarie per promuovere la conoscenza della cultura del proprio paese all’estero."
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Federica Aceto traduce narrativa dall’inglese da dieci anni. Tra gli autori da lei tradotti: Martin Amis, J.G. Ballard, Don DeLillo, Stanley Elkin, A.L. Kennedy, Ali Smith.
Bisognerebbe cercare sul vocabolario, googlare termini, frasi, nomi di luoghi e personaggi alla ricerca di collocazioni e immagini, anche le cose che già conosciamo o pensiamo di conoscere, per verificare se è una scelta dell’autore o un modo di dire che ignoravamo. Ne ignoriamo tanti nella nostra stessa lingua madre, figuriamoci in una lingua straniera, per quanto bene possiamo conoscerla.
"Anni fa, quando ancora facevo parte del sindacato dei traduttori editoriali STRADE, su iniziativa di Anna Mioni, stilammo un decalogo sulla revisione editoriale. Eccolo."
Come tutti i lavori che non hanno garanzia di continuare fino all’età pensionabile, che dipendono da una telefonata o da un’e-mail, a volte anche dalle conoscenze giuste, dalla fortuna oltre che dalla bravura, il lavoro del traduttore mette spesso alla prova l’immagine che si ha di sé. Siamo giudicati, valutati, scelti da altri e siamo in tanti. Puoi avere tradotto decine di libri, per le case editrici più prestigiose, aver vinto premi, insegnato all’università, puoi anche ogni tanto pensare per più di mezz’ora di essere bravo, ma la voce che ti dice: “no, nun è vero, chi te credi da esse, e comunque ‘sto libro l’hai cannato ‘n pieno”* non sta zitta praticamente mai.
Nel corso degli ultimi dieci-quindici anni le cose sono cambiate, abbiamo ottenuto degli innegabili risultati. Ma sempre a fatica, e ogni volta con una vaga sensazione di amaro in bocca. Perché? Sarò franca: non è solo colpa degli editori/giornalisti/blogger/lettori. Credo che sia un po’ anche colpa nostra che spesso sbagliamo strategia comunicativa.
Cosa è più filologicamente corretto? Recuperare un lessico e un clima linguistico vicini all’italiano di un giovane di sessant’anni fa, pur non essendo Holden un giovane italiano di sessant’anni fa e nonostante i giovani italiani di sessant’anni fa non parlassero tutti allo stesso modo e forse nemmeno in italiano (o non lo stesso italiano), perlopiù? Puntare a un gergo giovanile di oggi che rischia di essere obsoleto già domani oltre che anacronistico oggi? Optare per una via di mezzo, e cioè una lingua ibrida, fedele non a una verosimiglianza filologica, ma a una coerenza interna del testo che rispecchi, come dice giustamente Matteo Colombo, l’interpretazione, l’opinione, ovviamente parziale, che il traduttore dà del testo in questione?
Cosa sono i finanziamenti alle traduzioni?
Dice la legge: "Per le opere tradotte, sulla copertina o sul frontespizio dell’esemplare devono essere impressi, oltre il nome e cognome del traduttore, il titolo dell’opera e l’indicazione della lingua da cui è stata fatta la traduzione."
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